Il fu Mattia Pascal

Il 13 novembre 2024 la nostra classe, la 5F, insieme ad altre quinte, si è riunita a Brescia per assistere all’opera teatrale tratta dal celebre romanzo di Pirandello “Il fu Mattia Pascal”.
La trama racconta brevemente la storia di Mattia Pascal, che, insoddisfatto della sua vita, vince una grossa somma di denaro e decide di “morire” spiritualmente per costruirsi una nuova esistenza: scappa dal suo paese e assume una nuova identità, quella di Adriano Meis. Tuttavia, anche questa vita si rivela insoddisfacente, poiché non riesce a crearsi una vera identità a causa dei suoi continui ripensamenti del passato che voleva nascondere. Alla fine, decide di tornare alla sua “vecchia vita”, ma una volta tornato nel suo paese natale come Mattia Pascal, scopre che tutto è andato avanti senza di lui.

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Una delle cose che più mi ha colpito di questa esperienza è il modo in cui l’attore che interpretava Mattia Pascal è riuscito a coinvolgermi e a farmi seguire attentamente la rappresentazione. Per noi adolescenti, ormai abituati a film o serie tv piuttosto che al teatro, il linguaggio e l’uso delle parole, uniti all’enfasi che l’attore riusciva a trasmettere, sono stati straordinari. Questo ha saputo attirare l’attenzione e ha reso facile seguire l’opera per tutta la sua durata.
Un tema importante trattato nell’opera è quello della morte: il protagonista vuole “uccidere” la propria identità per crearne una nuova, convinto che ciò risolverà tutti i suoi problemi e gli permetterà di vivere serenamente, ma ciò non accade. Anzi, soprattutto nella versione teatrale che abbiamo visto, si nota quanto Adriano Meis soffra per non poter essere completamente sé stesso nemmeno con chi gli sta accanto, e ciò lo porta alla solitudine.

2Mi ha colpito particolarmente la scena finale, quando il protagonista torna a essere “Mattia Pascal” e va al cimitero davanti alla sua  tomba: in quel momento, l’uomo si rende conto di non essere più desiderato da nessuno, e capisce che il periodo trascorso come “Adriano Meis” è stato completamente inutile, sia per gli altri che per sé stesso.

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Open Arms

Il 6 marzo alcune classi dell’IIS Cerebotani di Lonato hanno fatto un’uscita didattica presso il cinema di Brescia per guardare il film “Open arms” e incontrarne gli esperti.

MA CHE COSA E’ OPEN ARMS?

Open Arms è un’organizzazione non governativa (ONG) spagnola fondata nel 2015, specializzata in operazioni di salvataggio in mare nel Mar Mediterraneo. Opera principalmente nel Mediterraneo centrale, soccorrendo persone in pericolo su imbarcazioni precarie, spesso partite dalle coste nordafricane (Libia, Tunisia)
dirette verso l’Europa. Navi di Open Arms sono state più volte respinte da porti europei (es. Italia e Malta), con accuse di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Notevole il caso del 2019, quando la nave rimase bloccata per 19 giorni a largo della Sicilia durante il governo Salvini. Open Arms rappresenta un simbolo della risposta civile alla crisi umanitaria nel Mediterraneo, bilanciando soccorso immediato e attivismo politico, nonostante le complesse polemiche geopolitiche.

IL FILM “OPEN ARMS”

2015, autunno. Òscar, comproprietario di una società di bagnini di Barcellona, resta sconvolto dalla foto di Alan Kurdi, il bambino siriano annegato nel Mediterraneo. Decide di partire subito per l’isola di Lesbo convincendo ad andare con lui anche il collega e amico Gerard che è da poco diventato padre. Arrivati sul posto, sono messi davanti alla dura realtà; ogni giorno migliaia di persone cercano di raggiungere terra con imbarcazioni di fortuna ma nessuno li aiuta davvero. Polizia e guardia costiera si rimbalzano le responsabilità e gli abitanti del luogo si mostrano indifferenti se non ostili. La presenza di Òscar e Gerard non è gradita. L’avvertimento è in una scritta (“Via gli stranieri”) sulla fiancata della loro Panda Rossa. C’è però qualcuno che è dalla loro parte come la proprietaria di un ristorante. Ad aiutarli nei soccorsi arrivano dalla Spagna anche Nico ed Esther, la figlia di Òscar, e al gruppo si uniscono anche un fotografo e un medico alla disperata ricerca della figlia scomparsa. Il fatto vero di cronaca ha il ritmo serrato a metà tra il western e l’action quando i protagonisti arrivano in una città ostile. La scena dal meccanico che gli ripete la cifra di 3000 euro sia per riparare l’auto sia per vendere lo spray diventa indicativa di come il luogo possa nascondere dietro la sua bellezza il suo lato sinistro. Da una parte è il luogo per i turisti con la ‘provocatoria’ immagine-cartolina del mare e la luna di notte. Dall’altra ci sono i salvagenti che galleggiano in mare e per terra e i trafficanti che buttano giù dai gommoni famiglie con madri e bambini.

Il film Open Arms si distingue per la sensibilità e la lucidità del regista Marcel Barrena nel raccontare la vicenda umana dei protagonisti, le loro difficoltà personali, familiari e il loro impegno eroico. La regia è semplice ma ambiziosa, con interpretazioni intense e una cura meticolosa in ogni dettaglio, dalle scene in mare fino alle ambientazioni. Anche se non è stato girato a Lesbo, il risultato è così realistico che non si nota.

Il fondatore di Open Arms, Òscar Camps, racconta che inizialmente era previsto di girare sull’isola, ma dopo che è trapelato il vero tema del film, sono arrivate minacce fasciste che hanno costretto la produzione a cambiare location per motivi di sicurezza. Le minacce, racconta, continuano ancora oggi, soprattutto online e in Spagna.

Camps ricorda anche con ironia l’esperienza vissuta con l’attore che lo interpretava, che lo seguiva da vicino per studiarne i gesti e la personalità. Inizialmente lo trovava inquietante, ma poi ha capito quanto fosse importante affidare la sua storia personale a mani competenti per far conoscere la causa per cui lotta ogni giorno. Anche a costo di sacrificare la propria privacy, crede sia giusto raccontare pubblicamente ciò che fanno.

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L’AUTORE

Marcel Barrena, nato nel 1981 a Barcellona (Catalogna, Spagna), è un regista, sceneggiatore, produttore e montatore spagnolo. Ha ottenuto il riconoscimento del Catalan Academy Award nel 2011 per il suo film d’esordio Cuatro estaciones ed è stato il primo regista a vincere due Premi Gaudí con due opere diverse (Cuatro estaciones e Little World). Dopo il successo del documentario Little World, ha diretto il suo primo lungometraggio di finzione, 100 metros (2016). Nel 2021 ha presentato Mediterraneo alla Festa del Cinema di Roma.

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DA DOVE È INIZIATA LA STORIA: IL RACCONTO DI OSCAR DELL’ELEFANTE:

Nel film Open Arms – La legge del mare, c’è una scena simbolica e molto toccante in cui Òscar cerca di raccontare una storia, quella dell’elefante incatenato. Questa storia ha un forte significato metaforico e rappresenta il punto di partenza emotivo e filosofico del film, oltre a riflettere il cuore della sua missione.

La storia che Òscar tenta di raccontare è una parabola spesso attribuita allo scrittore Jorge Bucay. Parla di un elefante cresciuto in cattività, legato fin da piccolo a un palo con una catena. Da piccolo, l’elefante prova a liberarsi, ma non ci riesce perché non ha abbastanza forza. Col tempo, smette di provarci: interiorizza l’idea di non poter fuggire. Anche da adulto, ormai forte e perfettamente in grado di spezzare la catena, l’elefante non ci prova più. Crede ancora di essere impotente, perché ha imparato a esserlo. Oscar vuole trasmettere un messaggio profondo sulla rassegnazione e sull’illusione dei limiti.

OPEN ARMS: PERSONE, NON NUMERI

Il film Open Arms si apre con la tragica immagine del piccolo Alan Kurdi, che all’epoca commosse il mondo intero. Oggi, però, immagini simili non suscitano più lo stesso impatto, perché ci stiamo abituando alla sofferenza.

Il regista Marcel Barrena riflette su questa assuefazione, spiegando che viviamo in un’epoca dominata dalla velocità e dalla superficialità dell’informazione. Le notizie si susseguono rapidamente, senza il tempo di approfondire o comprendere.

Secondo Barrena, l’errore che ha cambiato tutto nel caso di Alan Kurdi è stato dargli un nome: così facendo, non era più solo un numero tra tanti morti, ma un bambino con una storia. Questo ha reso la tragedia concreta e umana.

Barrena auspica che si commettano “più errori” di questo tipo: dare un volto e un nome alle vittime per restituire loro dignità, suscitare empatia e spingere le persone ad interessarsi e ad agire. Solo così si può evitare di restare indifferenti di fronte alla sofferenza.

LA PARABOLA DEI CIECHI E DELL’ELEFANTE:

Quella dell’elefante e dei ciechi, ricordata nel film, è una parabola molto diffusa nel subcontinente indiano, da cui ha origine. Si narra la storia di alcuni ciechi che non hanno mai avuto modo di entrare in contatto con un elefante, cosicché, toccandolo a turno, cercano di fare la sua esperienza confrontandosi tra di loro. Ciascuno pone la mano su una porzione delimitata e diversa del corpo dell’elefante, quindi lo descrive sulla base delle sensazioni provate. Il risultato è che ogni cieco offre una rappresentazione diversa da quella degli altri.
L’insegnamento è che gli uomini sono inclini a reclamare la verità assoluta limitandosi alle loro esperienze soggettive e circoscritte, senza prendere in considerazione il fatto che il punto di vista degli altri possa essere ugualmente vero.
La prima versione della storia la possiamo trovare nel testo buddista “Udana 6.4”, risalente alla metà del primo millennio a. C., ma secondo alcuni studiosi la parabola è probabilmente più antica del testo buddista. Esistono versioni alternative della parabola: per esempio, in una di queste non sono protagonisti dei ciechi ma dei vedenti, bendati, che tentano di descrivere una grande statua calata in un contesto di buio fitto. Pur nelle sue difformi versioni, questa parabola ha attraversato molte tradizioni religiose e si trova come parte integrante dei testi giainisti, indù e buddisti del primo millennio d. C., o addirittura precedenti.

File source: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Selznick_Kimball_Young.jpg

Significato della parabola nel film:

La parabola dei ciechi e dell’elefante ci insegna che ogni persona ha una visione parziale della realtà, influenzata dalla propria esperienza e dai propri limiti. I ciechi, toccando ciascuno una parte diversa dell’elefante, arrivano a conclusioni differenti, credendo ognuno di avere la verità assoluta. Tuttavia, nessuno riesce a cogliere l’interezza dell’elefante, proprio perché si affida solo alla propria percezione parziale.

Nel film, questa parabola viene usata per spiegare la difficoltà di comprendere pienamente la complessità umana e le tragedie vissute dai migranti. Oscar, che opera in mare per salvare vite umane, è testimone diretto di drammi che molti, lontani dalla realtà del Mediterraneo, non vedono o non vogliono vedere.

Oscar è come colui che ha visto tutto l’elefante, mentre tanti altri vedono solo un pezzo. Lui ha vissuto sulla sua pelle la disperazione dei migranti, la morte in mare, l’umanità dietro ogni singola persona che cerca salvezza. Quindi, quando afferma “Tanti non capiscono e tanti altri non possono capire”, intende dire che:

  • Ci sono persone che non vogliono capire, per ignoranza, indifferenza o pregiudizio.
  • E ci sono persone che non possono capire, perché non hanno mai vissuto o visto da vicino quella realtà, proprio come i ciechi della parabola.

Il messaggio che emerge è che nessuno può avere una visione completa del mondo senza ascoltare le esperienze degli altri. Solo attraverso l’empatia, il dialogo e la disponibilità a mettersi nei panni altrui, possiamo avvicinarci a una comprensione più autentica della realtà.
Oscar, con la sua testimonianza, ci invita a guardare oltre il nostro punto di vista e a considerare che, se non vediamo il dolore degli altri, non significa che quel dolore non esista.

Òscar, all’inizio del film, cerca di raccontare questa storia a sua figlia e a un gruppo di bambini. Ma si interrompe. Le parole gli si inceppano in gola, e non riesce a finirla. Non è solo la difficoltà di spiegare ai più piccoli una realtà così dura, ma anche l’inizio del suo personale risveglio: si rende conto che lui stesso, come l’elefante, ha accettato una realtà ingiusta senza opporsi. Questo è il punto di svolta: l’inizio del suo viaggio per non accettare più di non poter cambiare le cose.

Il tempo in “Open Arms – La legge del mare”

Il film “Open Arms – La legge del mare” presenta un ritmo serrato che riflette l’urgenza delle operazioni di salvataggio in mare. Le sequenze drammatiche utilizzano un montaggio dinamico, alternando primi piani dei migranti in preda al panico, inquadrature della nave tra le onde e momenti di tensione tra l’equipaggio. La narrazione si concentra su un arco temporale ristretto, enfatizzando la pressione sull’equipaggio e la lotta contro il tempo per salvare vite.

Le metafore del tempo includono:

  • L’orologio che scorre: simboleggia la finitezza delle risorse e la morte che incombe.
  • Il mare come spazio senza tempo: le acque del Mediterraneo rappresentano un eterno conflitto tra speranza e disperazione.
  • Il dilemma in crescendo vede il tempo come elemento chiave per costruire la tensione morale, con rischi crescenti per i migranti e pressioni sull’equipaggio. La sospensione temporale trasmette l’attesa angosciante dei sopravvissuti e dell’equipaggio, bloccati in un limbo giuridico mentre i governi europei discutono se accoglierli.
  • Il tempo è centrale nel film per il suo realismo, riflettendo la realtà delle missioni di salvataggio, e per la critica sociale, denunciando l’ipocrisia delle istituzioni attraverso il contrasto tra il tempo umanitario e il tempo politico. Il tempo non è solo una questione tecnica, ma un personaggio narrativo che plasma le emozioni dello spettatore e sottolinea il messaggio etico del film.

L’IMPORTANZA DI FARE SQUADRA

L’importanza di fare squadra emerge chiaramente come elemento fondamentale per affrontare situazioni complesse e drammatiche. Questo valore viene rappresentato non solo nelle azioni concrete di soccorso, ma anche nel modo in cui i personaggi si sostengono a vicenda, superando i propri limiti personali per un obiettivo comune più grande.

Un momento particolarmente significativo è la scena in macchina, dove Oscar, perso nei suoi pensieri e con lo sguardo fisso nel vuoto, sembra sopraffatto dal peso delle difficoltà e delle sofferenze che ha visto. In quel silenzio carico di tensione interiore, l’improvviso ritorno della figlia lo riporta alla realtà, ricordandogli che, nonostante le sue lotte personali, esistono questioni molto più grandi — come la salvezza di vite umane in mare — che superano di gran lunga i problemi individuali.

Questa scena sottolinea come, per Oscar e per tutti coloro che fanno parte della squadra di Open Arms, la forza e la determinazione derivino dalla consapevolezza che il loro impegno non è solo personale, ma collettivo. Fare squadra significa mettere da parte le proprie paure e difficoltà per agire uniti verso un obiettivo comune, più alto e urgente. È proprio questa solidarietà e collaborazione che permette loro di andare avanti, affrontare l’ignoto e salvare vite, dimostrando che, a volte, le responsabilità più grandi richiedono di superare le proprie battaglie personali per sostenere un bene superiore.

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La squadra non è solo un’organizzazione, è una famiglia:
 Il ritorno improvviso della figlia di Òscar, nel momento in cui lui sembra sopraffatto, è il simbolo più umano e profondo: ci sono questioni più grandi dei nostri drammi personali, e proprio per questo non dobbiamo affrontarle da soli.

A far riferimento a questa scena è stato il nostro prof. Domenico Marchione insegnante di IRC all’ITIS Cerebotani. Lui ci fa riflettere facendoci ragionare su questa scena dove durante le riprese finali del film si vede il protagonista inquadrato a guardare la telecamera.

Il prof. Marchione nel suo intervento ci fa notare questo squardo di Oscar che con gli occhi ci dice tutto e in realtà Oscar sta guardando proprio noi chiedendoci un opinione.

Tramite i suoi occhi, Oscar ci trasmette un invito a non chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie, ma a diventare parte di quella “squadra” di cui Oscar parla, impegnandoci concretamente per un mondo più umano e solidale.

Oscar non è più solo un personaggio di un film, ma diventa quasi un testimone della realtà che ci interpella personalmente. Il suo sguardo ci sfida a riflettere sul nostro ruolo di fronte alle tragedie che vediamo o ignoriamo, come quella dei migranti in mare. È come se ci stesse chiedendo:

“E tu cosa fai? Cosa faresti se fossi nei miei panni? Hai il coraggio di agire, di fare la differenza? Hai il coraggio di non fermarti di fronte ad un ostacolo?”

 

 

 

 




Uscita cinematografica a Brescia

Una mattina di marzo, alle otto, ci siamo trovati alla stazione di Desenzano. L’aria era ancora fresca, le voci leggere, ma nei nostri occhi si leggeva l’entusiasmo per un giorno diverso dal solito. Stavamo per prendere il treno verso Brescia, destinazione: cinema. Una semplice uscita scolastica, all’apparenza. Ma si è rivelata molto di più. Il tempo passato in treno è stato breve ma prezioso. Ridere con i compagni, condividere battute, guardare fuori dal finestrino e sentirsi parte di qualcosa. Un gruppo che cresce insieme, non solo dentro le mura della scuola. Arrivati al cinema, ci siamo immersi nel buio della sala per assistere alla proiezione del film Open Arms – La legge del mare. Fin dai primi minuti, ci siamo trovati davanti a una realtà dura, cruda, a tratti sconvolgente. La storia del salvataggio dei migranti nel Mediterraneo ci ha colpiti profondamente. Abbiamo visto il coraggio di chi rischia tutto per salvare vite, ma anche l’indifferenza e le difficoltà imposte dalla burocrazia e dalla politica. È stato impossibile restare indifferenti. Il film ci ha fatto riflettere sul valore della solidarietà, sull’importanza di non voltarsi dall’altra parte. Abbiamo provato empatia, rabbia, tristezza, ma anche ammirazione per chi, come il protagonista, sceglie di agire secondo coscienza.

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Questa uscita ci ha dato molto più di un semplice momento di svago. Ci ha fatto crescere. Ci ha mostrato quanto sia importante guardare oltre il nostro piccolo mondo, aprirci agli altri, non giudicare, ma cercare di capire. Tornando a casa, il silenzio sul treno era diverso da quello dell’andata. Era pieno di pensieri, di emozioni. Forse anche di domande. Ma soprattutto, era pieno di consapevolezza. E di gratitudine per aver vissuto un’esperienza che ci ha lasciato qualcosa dentro, che ci ha unito un po’ di più come classe e come persone.

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Conferenza “Lo stragismo degli anni Settanta”

Sabato 12 aprile 2025, presso la sala della musica della biblioteca di Lonato, gli studenti di alcune delle classi quinte dell’IIS Cerebotani, hanno partecipato a un incontro con Manlio Milani, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Piazza della Loggia, accompagnato da due avvocati, Valeria Cominotti e Francesco Menini, quest’ultimo coinvolto nei lunghi processi che hanno cercato di fare luce su una delle pagine più buie della storia italiana. L’incontro è stato un’occasione preziosa per approfondire gli anni dello stragismo, tra il 1969 e il 1974, periodo segnato da attentati mirati come quelli di Piazza Fontana e, a Brescia quello di Piazza della Loggia, avvenuti nell’ambito di una vera e propria “strategia della tensione”. IMG_4142

L’obiettivo? Destabilizzare la giovane democrazia italiana, ostacolare le riforme sociali e creare un clima di insicurezza tale da giustificare il ritorno a un regime autoritario. Personaggi come Gaetano Orlando, protagonista dei processi, dichiararono apertamente di essere consapevoli della violenza messa in atto, motivati da un forte anticomunismo e dall’idea che solo un conflitto — civile o indiretto — avrebbe permesso di eliminare il Partito Comunista. La strage del 28 maggio 1974 colpì una manifestazione legata alla campagna per il referendum sul divorzio, un momento di profonda partecipazione democratica. Quella bomba non colpì solo i manifestanti, ma l’intera società civile, mettendo in discussione valori come il dialogo, la libertà e la possibilità stessa di scegliere. Manlio Milani ha ricordato come quella violenza avesse l’intento di negare l’esistenza dell’altro, di chiudere ogni possibilità di confronto.

Ma la risposta popolare fu forte: la piazza tornò a riempirsi, stavolta di cittadini comuni, studenti, sindacati, insegnanti. La scuola era lì, a testimoniare il suo ruolo fondamentale nella costruzione della memoria e della consapevolezza. Le storie delle vittime, come quella dell’insegnante Luigi Pinto o dell’operaio Bartolomeo Talenti, mostrano la varietà e la forza delle persone coinvolte, spesso rappresentanti del lavoro, della cultura e della Resistenza. Centrale anche il ruolo delle donne, tre delle cinque insegnanti morte erano donne: simbolo di un diverso modo di vivere il conflitto, più aperto al dialogo e all’ascolto. Nel corso dell’incontro si è parlato anche di giustizia riparativa, cioè la volontà non solo di punire i responsabili, ma di ricostruire un tessuto sociale ferito, restituendo dignità alle vittime e favorendo un dibattito collettivo, di cui Manlio Milani si è fatto promotore. Come infatti ha ricordato durante la conferenza, “la memoria è andare oltre i ricordi” ovvero capire la storia per riconoscere i segnali del presente e impedire che simili tragedie possano ripetersi.

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Uscita didattica a Brescia – Open arms

Il 6 marzo 2025, io e la mia classe siamo andati in uscita didattica alla città di Brescia. Dopo aver preso il treno, siamo arrivati al nostro punto di destinazione, il Cinema Nuovo Eden, dove abbiamo assistito alla proiezione di un film molto significativo. Prima di entrare al cinema, abbiamo fatto un breve giro per la piazza principale di Brescia, un’opportunità per ammirare la città e prepararci a quello che sarebbe stato un pomeriggio pieno di riflessioni importanti.

Il film che abbiamo visto si intitola Open Arms – La legge del mare. Si tratta di un documentario che racconta le difficili e pericolose operazioni di salvataggio in mare svolte dall’associazione Open Arms, un’organizzazione non governativa che si occupa di salvare le vite dei migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo in cerca di salvezza. Il protagonista del film è un vero soccorritore dell’associazione, il quale ci racconta, tramite la sua esperienza diretta, la realtà drammatica delle operazioni di salvataggio, mostrandoci sia il lato umano che quello operativo della missione.

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La trama del film si concentra sulle operazioni di salvataggio in mare, mostrandoci il lavoro eroico dei soccorritori e le difficoltà che affrontano nel tentativo di salvare le vite delle persone in fuga dalla guerra, dalla povertà e dalle persecuzioni. Attraverso le immagini e le testimonianze di chi è coinvolto in queste missioni, il film ci porta a riflettere sul dramma della migrazione e sull’importanza di una risposta umanitaria e solidale.

Quello che mi ha colpito di più è stato vedere con i miei occhi il coraggio e la sofferenza delle persone in fuga. Spesso sentiamo parlare di immigrazione nei telegiornali, ma è facile dimenticare che dietro ai numeri ci sono esseri umani veri, con emozioni, paure e sogni. Nel film si vede chiaramente quanto sia pericoloso il viaggio e come, invece di trovare aiuto, queste persone spesso si scontrano con l’indifferenza o addirittura con ostacoli che impediscono loro di essere salvate. È assurdo pensare che qualcuno possa voltarsi dall’altra parte davanti a certe situazioni.

Un altro aspetto che mi ha fatto riflettere è la differenza tra chi decide di agire per salvare vite e chi invece cerca di fermare questi salvataggi. Il film ti mette davanti a una domanda scomoda: noi cosa faremmo al loro posto? È facile giudicare quando si è lontani da certi problemi, ma davanti a scene così forti diventa impossibile restare indifferenti. Ti rendi conto che certe cose non dovrebbero nemmeno essere una scelta: aiutare chi è in difficoltà dovrebbe essere un dovere di tuttOpen Armsi.Open ArmsOprn Arms

Dopo la proiezione, un team di italiani ci ha mostrato un video molto forte, in cui si vedevano immagini reali dei salvataggi in mare. Questo filmato mi ha colpito tantissimo, perché mostrava in modo diretto come avvengono i soccorsi e quanto sia complicato e pericoloso il lavoro di chi opera nel Mediterraneo. Si vedevano i volontari recuperare persone in condizioni disperate, cercando di metterle in salvo tra onde enormi e situazioni di panico. È stato un momento davvero intenso, che ha reso tutto ancora più concreto.Open Arms

In conclusione, Open Arms non è solo un film, ma un vero pugno nello stomaco. Ti fa aprire gli occhi su una realtà che spesso preferiamo ignorare e ti fa capire quanto sia importante la solidarietà. È una storia che merita di essere vista, perché parla di umanità, di coraggio e del diritto di ogni persona a essere salvata. Dopo averlo visto, non si può fare a meno di chiedersi cosa possiamo fare noi per cambiare le cose.

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PROGETTO DI FORMAZIONE CON “GARDA EMERGENZA ODV”

Nella mattinata di sabato 1° marzo, gli studenti di alcune classi del triennio dell’Istituto “Cerebotani” hanno partecipato a un corso di soccorso sanitario, inserito nelle attività di Educazione Civica e tenuto dall’associazione “Garda Emergenza ODV”.
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Sabato 1° marzo, presso l’Istituto “Cerebotani”, si è svolto un progetto formativo dedicato al primo soccorso, che ha approfondito i seguenti argomenti:
- BLS (Basic Life Support);
- la procedura per effettuare una corretta chiamata di emergenza al numero 1-1-2;
-la posizione laterale di sicurezza (PLS);
- le tecniche di disostruzione delle vie aeree per adulti, pazienti pediatrici e lattanti.
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Durante l’incontro, è stato inoltre illustrato il ruolo del volontario e le attività che l’associazione svolge sul territorio.

Gli studenti, dopo un’ora di formazione teorica, hanno potuto mettere in pratica le nozioni apprese attraverso esercitazioni su manichini da addestramento, simulando scenari reali sotto la guida dei formatori regionali di Garda Emergenza ODV.odv4
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L’iniziativa ha riscosso grande entusiasmo e interesse tra i partecipanti, che hanno acquisito competenze utili per gestire situazioni di emergenza. Il progetto ribadisce l’importanza della conoscenza delle manovre di primo soccorso, promuovendo responsabilità e consapevolezza tra i giovani: come sottolineato durante la giornata, «ognuno può fare la differenza», poiché tutelare e salvare vite umane è un obiettivo comune.odv5

Si ringrazia in particolare
l’associazione ‘’Garda Emergenza
odv’’, che ha permesso lo sviluppo
del progetto, in collaborazione con
l’Istituto “Cerebotani” e l’allievo
Matteo Carnaghi.




Green Book

GREEN BOOK


Un viaggio tra pregiudizi e umanità

Il razzismo è un tema che continua a segnare la storia della società e di conseguenza trova spazio nel mondo del cinema. Green Book (2018) è uno degli esempi più toccanti, diretto da Peter Farrelly e vincitore di tre Oscar. Il film racconta il viaggio nel sud degli Stati uniti del pianista afroamericano Don Shirley e del suo autista italoamericano Tony Vallelonga.

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Il contesto storico

Il titolo si riferisce al Green Book, una guida realmente esistita che aiutava le persone nere a trovare alloggi e ristoranti sicuri negli stati segregazionisti del sud degli Stati Uniti.

Negli anni ’60, figure come Martin Luther King stavano guidando proteste civili contro la segregazione e per garantire il diritto di voto agli afroamericani, eventi come la marcia di Washington (1963) e il Civil Rights Act (1964) rappresentavano primi passi per il cambiamento.

Oltre alla segregazione, il contesto storico era segnato da violenze fisiche e psicologiche contro le persone nere. Le aggressioni e gli arresti arbitrari erano strumenti di controllo sociale.

Molte città del sud applicavano il «sundown town rule» ovvero il divieto agli afroamericani di rimanere in città dopo il tramonto, quindi avere una guida come il Green Book non era solo utile ma essenziale per la sopravvivenza.Immagine5

La cultura afroamericana

Nonostante il razzismo, gli afroamericani contribuirono enormemente alla cultura americana, soprattutto nella musica. Artisti neri portarono la loro arte nei teatri e nelle sale da concerto «bianche» ma l’assurdità della loro condizione di vita era evidente: potevano esibirsi davanti a platee di bianchi ma non potevano cenare negli stessi ristoranti o alloggiare negli stessi hotel. Questo è rappresentato nel film attraverso le esperienze di Don Shirley, protagonista del film, un artista di un talento incredibile, che sul palco veniva trattato come un ospite importante ma disprezzato fuori dal teatro.

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Il razzismo nei rapporti umani

Il viaggio tra Tony Vallelonga e Don Shirley è soprattutto un viaggio di trasformazione, infatti all’ inizio Tony dimostra dei pregiudizi razziali, rispecchiando la società dell’epoca ma successivamente il diretto contatto con la cultura e l’umanità del protagonista, portano Tony a mettere in discussione le proprie convinzioni. Questo ci fa notare come il razzismo sia basato sull’ignoranza e come il contatto tra culture permetta di superare questi pregiudizi infondati.

Don Shirley di conseguenza rappresenta la complessità dell’identità nera durante il periodo della segregazione: si sente infatti, intrappolato tra due mondi, troppo bianco per essere accettato nella comunità nera, e troppo nero per integrarsi nella società bianca.

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Critiche e polemiche

Nonostante il grande successo del film, non è stato esente dalle critiche del pubblico. Le critiche principali sono legate al fatto che molti sostengono che il film presenta una visione troppo semplificata del razzismo riducendolo ad una serie di atti di intolleranza; mentre molti critici vedono nel film il fenomeno del «white savior» ovvero quando una persona bianca aiuta ad affrontare le problematiche delle persone che appartengono a minoranze razziali assumendo il ruolo dell’ eroe.

Tra le altre polemiche sul film, emergono quelle della famiglia di Don Shirley che sostengono che i fatti narrati non siano corretti in quanto il pianista e Tony non sono mai stati amici stretti ma a difesa di ciò intervenne il figlio di Tony spiegando che il film, si basa sui racconti del padre.

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Riflessioni e conclusioni

Green Book non offre una soluzione al razzismo ma ci consiglia a riflettere sulla possibilità di cambiamento personale e collettivo. Il cambiamento di idea di Tony ci mostra come il contatto con altre culture e la volontà di mettersi in discussione permetta il superamento dei pregiudizi razzisti.

Il film ci invita a guardare oltre le etichette per conoscere più profondamente chi ci sta davanti, una problematica presente tutt’oggi perciò possiamo dire che il «viaggio» verso l’uguaglianza è ancora in corso.

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Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Partiamo innanzitutto dall’origine di questa ricorrenza, ovvero il motivo dell’istituzione di essa. Ci troviamo tra gli anni ‘40 e ‘50, nella Repubblica Dominicana, un’isola caraibica, che al tempo dei fatti era una dittatura governata dal generale Rafael Trujillo. Le protagoniste di questa storia sono tre sorelle: Patria, Maria teresa e Minerva Mirabal, chiamate anche “mariposas” cioè “farfalle”.

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Le tre sorelle Mirabal decisero di impegnarsi nell’attivismo politico contro quel regime dittatoriale che promuoveva una cultura machista che non riconosceva alle donne l’occupazione di uno spazio pubblico e politico. Le “mariposas” vennero però messe a tacere da Trujillo, che le fece torturare, assassinare e gettare da un dirupo, usando poi la scusa che si trattasse di un incidente. Il popolo dominicano però non se la bevve, era chiaro che si trattasse di una scusa, infatti Trujillo fu assassinato pochi mesi dopo.
È in ricordo di Patria, Maria Teresa e Minerva che ogni 25 novembre si inaugura un periodo di 16 giorni dedicato all’attivismo contro la violenza di genere, che si conclude il 10 dicembre con la Giornata Internazionale dei diritti Umani. Il simbolo di questa giornata è il colore rosso, più specificatamente le scarpe rosse, che rappresentano tutte quelle donne uccise da uomini, che non potranno mai più indossarle lasciando un vuoto sia nelle scarpe, che nel mondo.

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Ogni anno a scuola, si parla di questa giornata (giustamente direi), e si trattano argomenti in cui tutti hanno pareri discordanti fra di loro, ad esempio l’altro giorno abbiamo discusso in classe di un argomento su cui tutti avevano opinioni diverse.
L’argomento in questione è di come vengono chiamate le donne, spesso con sostantivi sgradevoli e parolacce, o nomi partoriti da un immaginario collettivo maschilista e misogino.
Purtroppo si attribuiscono certi nominativi alle donne, quando basterebbe tacere di fronte a determinate situazioni, senza andare a gravare la situazione. Perché gli uomini che chiamano una donna con appellativi per niente pertinenti, sono solo degli insicuri che parlano per riempire il proprio ego e per alimentare quella voce nella loro testa che gli fa credere di essere superiori alle donne.
La storia è piena di civiltà che avevano ideali misogini e maschilisti, basta pensare all’antica Roma; purtroppo però queste idee non si sono ancora sradicate dalle menti di certi uomini, che credono di essere superiori al genere femminile, solo perché pene-muniti, spesso e volentieri queste convinzioni portano gli uomini a maltrattare le donne, che siano le loro mogli, figlie, madri o amiche. Idee del genere sfociano in molestie, catcalling, o addirittura femminicidi (“Il femminicidio è un omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa da un individuo per motivi basati sul genere.” Fonte: Wikipedia).
I social hanno portato alla nascita di uno dei commenti più frequenti sotto i video, foto o post in generale che riguardassero notizie di femminicidi, maschilismo o quant’altro. Il commento dice “non tutti gli uomini” tradotto dall’inglese “not all men”; spesso si tende a generalizzare soprattutto, e viene detto che tutti gli uomini sono uguali, che sono tutti degli assassini, che non c’è bisogno degli uomini etc…, ovviamente questo genere di commenti è esagerato siccome non tutti noi uomini siamo degli assassini, o molestatori o maniaci, ma comunque allo stesso modo è sbagliato da parte di noi uomini dire che non abbiamo nessuna responsabilità per quanto accaduto ad esempio alla povera Giulia cecchettin, perchè invece abbiamo eccome la responsabilità, anche se non siamo noi Filippo Turetta, la nostra responsabilità è quella di sensibilizzare su certi argomenti, di smetterla di fare finta di nulla, di proteggere le donne che amiamo, di smetterla di fare sempre battute su argomenti del genere, dobbiamo smetterla di trattare la questione come se non fosse un nostro problema, e basta cominciare con poco: basterebbe dire al proprio amico di smetterla di fare commenti inappropriati quando vede una bella ragazza, o di fare battute maschiliste che sminuiscono la donna, perché quelle “battute” sono cat-calling, e non sono cose da poco, possono fare più male dei pugni a volte, quindi bisogna pensarci due volte prima di parlare. E parlo di NOI perché anche se io non faccio, non ho mai fatto, e mai farò certe cose, devo parlare al plurale per far capire che bisogna darci una svegliata, e crescere mentalmente.
Anche perché fa male pensare che non si può essere tranquilli a lasciare la propria madre, la propria sorella o la propria ragazza da sola di notte. Fa male pensare che potrebbe succedere qualcosa alle persone più care che si hanno, senza un apparente motivo, solo per colpa dell’ego di qualche “uomo”, sempre se così si può definire.
Io spero vivamente che col tempo la situazione possa cambiare, ma perché ciò accada serve che in primis noi uomini la smettiamo per una volta di scherzare, e cominciamo a prenderci cura delle donne che amiamo e soprattutto che le proteggiamo da altri “uomini”, che dovrebbero invece non essere nemmeno chiamati tali.

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I GUARDIANI DEL BENACO

Chi è Frantz Kourdebakir

Frantz Kourdebakir è un educatore, professore di religione e pellegrino di origini francesi, che basa il suo lavoro sulla speranza; infatti durante la nostra camminata portava con sé un candelabro con all’interno la Candela della Speranza accesa con la terza e quarta quadriennale.

Il suo cammino

Frantz ha iniziato il suo cammino in Francia dove, come professore di religione, ha deciso di intraprende un percorso interiore basandosi sulla speranza che i giovani possano cambiare il mondo. Arrivato in Italia ha insegnato sulla sponda veronese del Lago di Garda, iniziando con loro il vero e proprio percorso, stupendosi della poca conoscenza del territorio da parte dei ragazzi. Dopo il suo arrivo nella nostra scuola, con l’aiuto del professore Domenico Marchione che ha dato la piena disponibilità a questo progetto, ha consegnato ai ragazzi delle classi che hanno avuto la fortuna di partecipare al progetto dei Guardiani del Benaco (la terza e la quarta quadriennale) un foulard per intraprendere insieme il Cammino del Benaco, un cammino di 400 km in 18 giorni da realizzare con tutte le scuole del Lago di Garda. Queste classi hanno visitato LoretoAssisi, Barbiana e infine hanno viaggiato sul Lago di Garda con il «Battello della Speranza» in preparazione alla Giornata Mondiale dell’Acqua (il 22 marzo).

«Torniamo a camminare insieme per ascoltare il grido della terra e dei poveri»

La nostra esperienza con Frantz è stata una camminata che si è svolta dall’itis alla Rocca di Lonato. Durante un momento di socializzazione, pur non essendo una delle classi aderenti al progetto, Frantz ci ha raccontato la sua storia e il suo obiettivo al fine di formare e tutelare le nuove generazioni a partire di una rete con tutte le scuole del nostro lago per promuovere un’ecologia integrale. Durante la nostra passeggiata portava con se anche lo «zaino della responsabilità» con all’interno i resti della barca affondata a Cutro. Tra i resti c’erano: un giubbotto salvagente, due pezzi di scafo della nave e un biberon. Questi oggetti rappresentano la memoria: il biberon per ricordare i sogni dei bambini buttati nel Mare Mediterraneo e la nostra responsabilità di custodire i sogni delle nuove generazioni, mentre il giubbotto salvagente ci ricorda che siamo tutti sulla stessa barca e che per salvarci dobbiamo impegnarci a rimanere umani camminando insieme.

“I CARE”

Frantz ci ha invitato a mettere in pratica le parole del grande educatore D. Lorenzo Milano «I care! Mi sta a cuore!» per ribaltare l’atteggiamento dell’«I don’t care», quel «Non mi interessa» che non era solo una delle espressioni che hanno caratterizzato il pensiero e, quindi, la società del periodo fascista, ma che, in un certo senso, sta diventando anche il leitmotiv del nostro mondo.

Abbiamo concluso il nostro percorso con la bandiera della pace venuta dalla città di D. Tonino Bello ad Alessano in Puglia per ricordare la famosa Marcia per la pace nella capitale bosniaca assediata dall’esercito serbo a Sarajevo nel 1993.

Educare alla pace le nuove generazioni è diventata una priorità! Tornare ad essere uomini disarmati! Ma occorre un’azione intellettuale, bisogna che le nazioni promuovano le tecniche della strategia nonviolenta.

Simone Gobbi, Marian Zubani, Alessandro Bianchini, Enea Cavallari, Niccolò Giraldo – 3A

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Incontro Economy of Francesco

Mercoledì 28 febbraio 2024, la nostra giornata è iniziata con il caloroso benvenuto a Stefano Rozzoni e Maria Jordet, due esperti nell’ambito dell’Economy of Francesco. Questo è un progetto di educazione civica che ha coinvolto gli studenti per quattro ore di lezione, integrando le materie di IRC, matematica, lingua e lettura italiana e lingua inglese.

Fin dall’inizio, siamo stati profondamente ispirati dall’esperienza e dall’impegno di Rozzoni e Jordet nel promuovere un’economia più equa e sostenibile. Durante la giornata, abbiamo avuto l’opportunità di approfondire il concetto dell’Economy of Francesco nel contesto globale. Rozzoni e Jordet ci hanno fornito una panoramica generale, sottolineando l’importanza della collaborazione e dell’innovazione nel perseguire obiettivi significativi.

Un momento chiave è stato quando Maria ha condiviso la sua iniziativa in Bangladesh, dove i bambini realizzano bellissimi disegni utilizzando risorse locali, dimostrando come la creatività possa prosperare anche in condizioni difficili. Inoltre, una delle parti più significative della giornata è stata la videochiamata con un lavoratore nigeriano che lavora in un campo gestito dall’Economy in Nigeria. Attraverso questa connessione, abbiamo potuto ascoltare direttamente le sue esperienze e le sfide che affronta nel suo lavoro quotidiano, ottenendo così una preziosa prospettiva sull’interconnessione tra economie locali e globali.

Successivamente, ci siamo suddivisi in gruppi e abbiamo lavorato alla progettazione di soluzioni concrete per migliorare la nostra comunità, esplorando una vasta gamma di argomenti che includevano la salute e l’istruzione. Le presentazioni dei progetti sono state il momento culminante della giornata, permettendoci di condividere le nostre idee sia in italiano che in inglese, simulando una presentazione di fronte a un pubblico più ampio e diversificato linguisticamente.

In conclusione, questa giornata è stata estremamente educativa e motivante. Abbiamo imparato non solo dagli esperti, ma anche l’uno dall’altro, attraverso l’interazione diretta e il lavoro di gruppo. Siamo fiduciosi che le idee emerse durante questa esperienza possano tradursi in azioni concrete per migliorare la nostra comunità e contribuire a un’economia più equa e sostenibile per tutti. Un ringraziamento speciale a Stefano Rozzoni, Maria Jordet e all’istituto per averci permesso di vivere questa esperienza indimenticabile.

Classe 5H

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