Vita in trincea (in memoria della Grande Guerra)

centenario-grande-guerra

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Tutti sanno la storia della Prima Guerra Mondiale e,purtroppo, viene ignorata la condizione umana dei soldati. Focalizzerò l’attenzione sui soldati italiani. La Grande guerra si è combattuta prevalentemente nelle trincee, un fossato scavato nel terreno al fine di offrire riparo al fuoco nemico, è un antichissimo sistema difensivo utilizzato nelle guerre di posizione. Una delle zone più combattute del fronte italiano durante la Grande Guerra fu la zona del Carso isontino, l’altopiano pietroso che da Gorizia scende fino alle spalle di Monfalcone e all’attuale provincia di Trieste. Essa fu costruita tra il 1915 e il 1917. Dentro la trincea tutto era difficile. Durante il periodo bellico i soldati dovevano affrontare dei momenti durissimi in prima linea, in strutture più o meno provvisorie, con il costante terrore di essere prima o poi colpiti da qualche cecchino o dal ricevere l’ordine di prepararsi all’assalto. Esperienze che segnarono molti uomini per tutta la vita, come dimostrano i molti casi di malattie mentali sviluppate già durante la guerra o appena tornati nelle proprie case. Sin dall’inizio la preparazione dell’esercito fu assolutamente insufficiente rispetto a quelle che erano le caratteristiche di questa guerra ,soprattutto per una guerra che sarebbe durata ben quattro anni. Molti soldati combatterono con in testa dei semplici berretti, inutili contro i proiettili nemici e ,peggio, non disponevano di pinze taglia fili in grado di creare velocemente dei varchi tra i reticolati nemici, posizionati tra la prima linea offensiva e la prima linea difensiva. Di conseguenza più un soldato perdeva tempo in questa operazione, più probabilità c’erano di essere colpiti dai nemici. Le scarpe erano del tutto inadatte per resistere al fango o al terreno pietroso del Carso o delle montagne. Le ferite erano molto frequenti così come i congelamenti, curati con lo stesso grasso che avrebbe dovuto servire per lucidare le calzature. Le borracce per l’acqua erano di legno (assolutamente anti-igieniche) mentre le tende per dormire (quando c’erano) erano inutilizzabili con la pioggia.  Molto spesso i soldati furono costretti a crearsi degli alloggi di fortuna per la notte, in buche coperte da un semplice telo, in anfratti del terreno dove si dormiva gli uni attaccati agli altri per disperdere il meno calore possibile. La guerra si è combattuta anche in montagna ad altitudini molto elevate (fino a 3000m le cime del Massiccio dell’Adamello) Anche se in queste luoghi non mancarono brigate di semplice fanteria (del tutto inadatte ad affrontare situazioni del genere), la maggior parte dei combattenti appartenevano al corpo degli Alpini. Si trattava di giovani reclutati nelle zone di montagna, abituati a spostarsi su questi terreni, a sopportare le temperature rigide e ad ubbidire agli ordini senza porsi troppe domande. Per oltre due anni rimasero in quota combattendo, trasportando materiali, armi, attrezzature, viveri e costruendo baraccamenti, appostamenti e sistemi trincerati . Lo stupore aumenta nello scoprire come gli equipaggiamenti distribuiti agli Alpini furono assolutamente inadatti alla vita in quota. Nonostante il clima estremo (non erano rare le nevicate estive), nella maggior parte dei baraccamenti la sola fonte di riscaldamento erano i piccoli fornelletti per le vivande. I vestiti di lana erano pochi e molti dovettero costruirsi degli occhiali da sole (utilizzando dell’alluminio) per prevenire i danni dei raggi solari. Inoltre per tutto il 1915 i soldati combatterono con le loro uniformi grigio-verdi che, in mezzo al manto nevoso, erano facilmente individuabili dai nemici. Solamente l’anno successivo furono distribuite le prime tute bianche che garantivano una maggiore mimetizzazione. Ma oltre ai soldati in prima linea, la guerra in montagna ebbe anche degli altri protagonisti. Si trattò dei cosiddetti portatori, i quali volontariamente si arruolarono per trasportare dalle retrovie (su pesanti ceste) armi, munizioni, materiale e cibo ai soldati in cima alle montagne. Essendo però la gran parte degli uomini impegnati in guerra, in alcuni casi questo ruolo fu ricoperto dalle donne. Uno dei grandi problemi durante la Grande Guerra fu quello dell’alimentazione. Le battaglie, la militarizzazione dei territori e le razzie provocarono devastazioni nei raccolti e lo svuotamento dei magazzini. Le famiglie nelle retrovie furono vittime di carestie e di malattie dovute a carenze alimentari gravi mentre il rancio dei soldati diventava ogni giorno più esiguo e scadente. La scarsa qualità era dovuta alla scelta di cucinare i pasti nelle retrovie e trasportarli durante la notte verso le linee avanzate. Così facendo, la pasta o il riso contenuti nelle grandi casseruole arrivavano in trincea come blocchi collosi. Il brodo si raffreddava e spesso si trasformava in gelatina mentre la carne ed il pane, una volta giunti a destinazione, erano duri come pietre. Scaldarlo una seconda volta non faceva che peggiorare la situazione, rendendo il cibo praticamente impossibile da mangiare. Il problema della qualità era parzialmente sopperito dalle quantità distribuite. A differenza infatti del rancio austro-ungarico (molto più esiguo, specialmente nell’ultimo biennio), l’esercito italiano dava ogni giorno ai suoi soldati 600 grammi di pane, 100 grammi di carne e pasta (o riso),frutta e verdura (a volte), un quarto di vino e del caffè. L’acqua potabile invece era un problema e raramente superava il mezzo litro al giorno. Per coloro che si trovavano in prima linea la gavetta (o gamella) era leggermente più grande. Prima degli assalti inoltre venivano distribuite anche delle dosi più consistenti con l’aggiunta di gallette, scatole di carne, cioccolato e liquori. Per molti ragazzi nati alla fine del XIX secolo, la Grande Guerra fu l’avvenimento che segnò per sempre la loro giovinezza. I primi furono la classe ’96 fino ad arrivare alla ’99. Molti (circa 370 mila) hanno deciso di emigrare all’estero , possibilmente oltreoceano. Altri invece decisero di disertare consegnandosi al nemico sperando di trovare delle condizioni migliori nelle prigionie austro-ungariche rispetto a quelle nelle trincee. Altri ancora decisero di fingersi malati , pazzi o persino infliggersi delle ferite in modo che non venissero presi. I casi più comuni furono quelle da arma da fuoco, procuratesi su un piede o su una mano in modo da ottenere perlomeno una licenza dalla prima linea di alcune settimane. Ma non mancarono casi più gravi come bruciature, lesioni agli occhi e alle orecchie, gonfiori provocati da iniezioni sottopelle e l’assunzione di medicinali che potevano provocare delle reazioni allergiche. Nel corso della guerra gli equipaggiamenti e la vita nelle trincee migliorarono sensibilmente. Dopo il primo anno, nella primavera del 1916 iniziarono ad essere distribuite nuove dotazioni che contribuirono a rendere meno dura la vita sul fronte. Apparvero i primi elmetti, consegnati inizialmente ai reparti addetti a tagliare i fili dei reticolati e poi anche alle sentinelle. Le calzature furono più moderne e robuste ed i reparti impegnati in montagna ricevettero dei scarponi chiodati, molto più adatti per gli spostamenti. Entro l’inverno comparvero anche i primi sovrascarpe pesanti ed i primi cappotti. Molti altri aspetti invece rimasero identici e, in particolare, la crudeltà con cui gli alti gradi militari decidevano della sorte dei propri uomini. Cadorna, un personaggio senza dubbio carismatico ma anche controverso, rimase convinto per tutta la durata del suo incarico che l’unico modo utile e giusto per condurre una guerra fosse l’attacco ad ogni costo, senza badare alle conseguenze. I soldati perciò dovevano uscire dalle trincee appena giungeva l’ordine. Chi esitava o si rifiutava, veniva colpito dagli spari dei carabinieri posizionati alle loro spalle. All’interno dell’esercito ci fu anche una pesante censura dei giornali non autorizzati, le lettere scritte ai propri famigliari per evitare che nel resto del Paese si diffondesse l’idea che la guerra non stava andando secondo i piani. Uno degli aspetti meno conosciuti della vita in trincea e in retrovia fu quello delle punizioni e dei processi ai soldati. Luigi Cadorna infatti, sin dall’inizio della guerra, aveva ordinato la massima severità per il mantenimento della disciplina e il rispetto dell’autorità. Atteggiamento che, nel corso del conflitto, si irrigidì sempre di più assumendo spesso i contorni di una spietata crudeltà . I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto ad esempio potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri mentre la censura in trincea divenne ogni giorno più oppressiva. Qualsiasi lettera scritta dai soldati non poteva contenere informazioni diverse da quelle pubblicate dai giornali italiani e doveva trasmettere entusiasmo per la guerra. Chi non rispettava queste indicazioni rischiava la condanna al carcere militare. L’aspetto più tragico e crudele furono però le condanne a morte a carico dei soldati. È stato calcolato che tra l’ottobre del 1915 e l’ottobre del 1917 furono eseguite circa 140 esecuzioni capitali dovute ai motivi più disparati. Uno dei casi più celebri fu quello della Brigata Catanzaro, avvenuto a Santa Maria la Longa nel luglio del 1917. I soldati, dopo aver combattuto in prima linea sul Carso isontino, sull’Altopiano di Asiago e poi nella zona del Monte Ermada, furono trasportati nelle retrovie a riposare. Gli uomini erano stremati: da molto tempo le licenze erano state sospese e la difficile vita in trincea li provò notevolmente. Dopo pochi giorni, anziché essere trasferiti in un settore più tranquillo, gli fu ordinato di riprendere la strada verso il terribile Monte Ermada. A quel punto scoppiò la rivolta: 9 soldati e due ufficiali vennero colpiti a morte e solo l’intervento dei blindati e dell’artiglieria leggera fermò l’ira della Brigata Catanzaro. Ristabilita la calma,  i comandi militari decisero di dare un messaggio esemplare: 12 soldati, scelti a caso, vennero giustiziati e 123 furono mandati davanti al Tribunale Militare. La vita sul fronte costrinse gli uomini a convivere continuamente con la presenza della morte. In qualsiasi momento del giorno e della notte, all’improvviso, un proiettile o una scheggia di granata avrebbero potuto togliere la vita. Appare quindi quasi naturale, in mezzo a questa situazione irreale, la presenza della religione, vissuta come fede o più semplicemente come superstizione. Questa necessità nella vita di un soldato fu risolta dalla presenza dei cappellani militari nell’esercito e dalla massiccia distribuzione di santini e materiale devozionale. Milioni di santini, cartoline e libri di preghiere furono stampati grazie al lavoro di alcune istituzioni religiose come la Santa Lega Eucaristica e l’Opera per la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. Immagini religiose, allegorie, preghiere e suppliche furono i soggetti principali che i soldati potevano vedere e leggere ogni giorno. In questi cartoncini si trovavano stampate ad esempio la preghiera di pace di Papa Benedetto XV e l’immagine di Maria come Regina della Pace che invitava a rispettare il nemico dopo la sua uccisione. Oppure si cercava di tranquillizzare il soldato con parole di accettazione per la morte vista come una fatalità, consapevole che la Madonna avrebbe comunque vegliato su di lui. I più scaramantici invece appendevano, all’altezza del cuore, un cartoncino con scritto “Fermati!” Si trattava di una sorta di supplica (e speranza) rivolta all’eventuale pallottola nemica. Spesso si è portati a pensare alla guerra come ad un avvenimento violento dove due contendenti combattono fino all’eliminazione del proprio avversario senza mostrare nessun segno di pietà. La realtà però fu diversa: i soldati di tutti i paesi, accomunati dallo stesso destino, dalle fatiche quotidiane della vita in trincea e da un senso di umanità ancora vivo, furono in grado di stabilire dei contatti pacifici con i nemici e di “proclamare”, in certe occasioni, delle tregue. La più celebre tra queste fu senza dubbio la cosiddetta “Treguadi Natale del 1914″ quando sul fronte occidentale i soldati francesi e tedeschi si scambiarono gli auguri di Natale e dei piccoli doni, sospendendo i combattimenti per una settimana. Questo genere di episodi avvennero anche sul fronte italiano, specialmente in quelle zone del fronte dove la distanza trale linee trincerate era esigua (ad esempio sulla cima del Pal Piccolo, in Carnia). Questi contatti spesso servivano per barattare del cibo o oggetti che il proprio esercito non distribuiva. Gli austro-ungarici ad esempio richiedevano soprattutto qualcosa da mangiare data la situazione precaria del loro rancio. Ogni soldato aveva diritto infatti a soli 250 grammi di pane, 100 di pasta e 80 di carne, quindi molto meno rispetto agli italiani. Al contrario i soldati dell’Impero possedevano quasi sempre del tabacco che scarseggiava tra gli italiani. Il tutto doveva essere compiuto con la massima discrezione: chi veniva scoperto poteva essere denunciato di collusione con il nemico e punito con 10 anni di prigionia.

Marius Trica




Alternanza scuola lavoro a.s. 2013/2014

OMR

Officine Meccaniche Rezzatesi

Nelle ultime settimane di Gennaio circa 120 alunni, tra i diversi indirizzi di meccanica, elettronica e di formazione professionale, sia di quarta che di quinta, hanno tenuto un periodo di stage presso le più svariate aziende della provincia. Il territorio lombardo è conosciuto a livello internazionale per l’elevata qualità nella produzione di stampi e per le migliaia di aziende di piccolo-medio livello di cui per una settimana anche noi ragazzi abbiamo fatto parte. Un’esperienza che mi ha messo a confronto con un ambiente completamente nuovo, ossia il mondo del lavoro. Una realtà che la scuola tenta di emulare, a cui prepararci nel migliore dei modi, restando però sempre alla base di essa. Non si possono fare grandi paragoni tra la vita di uno studente e quella di un lavoratore e tutto ciò mi ha fatto riflettere. Nel mio caso ho affrontato le rinomate “Officine Meccaniche Rezzatesi” conosciute in tutto il mondo con l’acronimo di “OMR”. Un’impresa che ha un forte impatto sul territorio italiano, come si può notare dalle varie opere pubbliche che ha finanziato nei diversi comuni, ma che ha diverse filiali
in tutto il mondo come in India, Marocco e Cina. Questa grande azienda si occupa di produrre vari componenti nella sfera dell’automotive, spaziando dai basamenti-motore di casa Lamborghini fino ai polmoni del motore Ferrari. Un colosso del settore che ha ormai un secolo di storia, una società con un fatturato di molte centinaia di milioni di euro, un gruppo di migliaia di lavoratori dipendenti che ha trovato un piccolo posto anche per me. La giornata lavorativa, per me stagista, iniziava alle otto di mattina, con una pausa pranzo di un’ora, per concludersi poi alle cinque di sera. Sin dal primo giorno sono stato indirizzato in ufficio tecnico, dove veniva gestita la produzione. Qui mi hanno spiegato le, ormai necessarie, misure di sicurezza, i vari settori della struttura e il programma della settimana a cui
dovevo assistere. Con un breve giro dell’azienda mi hanno fatto vedere le varie tipologie di macchinari delle più svariate dimensioni: dai più vecchi ai più tecnologici, quelli semplici e quelli che lavoravano in catena con altri, quelli in cui la presenza dell’operatore era necessaria e quelli totalmente robotizzati.
Mi hanno poi spiegato la situazione della commessa che avrei trattato. Si trattava della foratura della scatola del cambio di un piccolo motore Rotax. La lavorazione consisteva nell’eseguire svariati fori con una macchina semi-automatizzata di discrete dimensioni. I fori realizzati venivano controllati manualmente e successivamente in una postazione dove si trovavano i Marposs: strumenti elettronici di forma circolare in grado di rilevare irregolarità nell’ordine del decimillesimo di millimetro. Le
misurazioni rilevate venivano memorizzate dalla stazione Marposs e potevano essere trasferite ai computer in ufficio per una loro elaborazione. Infatti, la sera, dopo aver lavorato alla macchina e aver eseguito i vari controlli, osservando delle svariate problematiche che si presentavano puntualmente nell’arco della giornata, il mio compito era quello di prelevare quei dati e analizzarli in ufficio assieme agli ingegneri. Grazie ad un programma grafico si poteva osservare l’andamento delle rilevazioni nel
tempo, confrontarle con i dati passati e con le previsioni future. Quell’insieme di puntini suggeriva numerose informazioni e si prestava a numerose considerazioni, molte delle quali però mi sfuggivano.
Di giorno in giorno mi hanno mostrato poi i diversi aspetti del loro ambiente e di tutte le altre attività. Ricordo in particolare un enorme laboratorio, mantenuto rigorosamente alla temperatura di 21 gradi, nel quale venivano fatte delle precisissime rilevazioni dimensionali dei pezzi, attraverso un imponente tastatore. Attraverso di esso, lavorando con una silenziosità incredibile, il pezzo in questione veniva sfiorato con delle minuscole sfere per trasferire le dimensioni al famoso software Pro-E, il quale eseguiva ulteriori verifiche a livello informatico. La complessità della macchina, prodotta dalla società Zaiss, era tale che in una settimana ho solo potuto osservare i tecnici senza approfondire molto altro.
In quelle circostanze però era necessaria una discreta capacità di lettura del disegno tecnico alla quale sono risultato piacevolmente competente. Infine l’ultimo giorno, prima di andare via, ho avuto un brevissimo colloquio di arrivederci con il proprietario delle aziende: è stato per me un momento davvero emozionante date le circostanze. In tantissime occasioni ho imparato qualcosa di nuovo e in molte altre ho messo in pratica le conoscenze teoriche che la scuola mi aveva suggerito. Un’esperienza
questa, che apre gli occhi a noi giovani su com’è realmente il mondo al di fuori della scuola, in che proporzioni le teorie sono presenti nella pratica e quanto conta l’insostituibile esperienza. Inoltre potrebbe essere stata una finestra sul mio prossimo futuro dato che sono entrato proprio in questa
azienda per i contatti che ho con le persone che vi sono all’interno e perché si è parlato anche di un ipotetico rapporto di lavoro quando avrò finito gli studi.

Michele Corradini